Cosa ho capito come genitore della Dad

14 Marzo 2022

Tempo di lettura: 4 min.

Lunedì mio figlio è tornato a scuola, dopo 4 mesi di DAD. Dall’inizio dell’anno ha potuto frequentare solo 2 settimane in presenza del suo primo anno di liceo scientifico. In questi mesi in cui la sua classe si è trasferita sugli schermi ho così avuto modo di osservare da lontano come cambi il modo di fare scuola e che ricadute ciò possa avere su un adolescente.

Il tema ha occupato molte delle mie conversazioni con altri genitori, sia di persona che online, a volte con toni eccessivamente accesi e un conseguente riacutizzarsi della mia gastrite. Per questo ho cercato di mettere da parte l’emotività e le paure – di cui siamo così preda in questi tempi – e di razionalizzare. Abbiamo parlato di come è difficile essere dei genitori digitali e quello che segue è una riflessione (quasi) a freddo su quello che ho capito come genitore della DAD.

La scuola in tempi di pandemia è un argomento che divide

Quando ad ottobre la scuola ha chiuso dopo circa due settimane di apertura, ho pensato che i genitori si sarebbero ribellati. Avevo sperimentato la didattica a distanza l’anno precedente, quando mio figlio era in terza media, traendone un bilancio negativo sia sul fronte psicologico che su quello dell’apprendimento.

Chiusa nella mia bolla ideologica, credevo che il mio punto di vista pro scuola in presenza fosse universalmente condiviso. Invece, col tempo ho compreso che la scuola in tempi di pandemia rappresenta un tema delicato e fortemente divisivo. Ne ho avuto prova in questi ultimi giorni, quando l’80% dei genitori pugliesi con figli alle scuole superiori si sono avvalsi della facoltà di scelta offerta dalla Regione e hanno optato per continuare con la DAD.

La prima cosa che ho capito della scuola a distanza è che, quando affrontiamo il discorso, occorre rispettare le diverse sensibilità, spesso legate a situazioni individuali che non possiamo comprendere fino in fondo.

La scuola è comunità di apprendimento

Rispetto alla media regionale, la classe di mio figlio ha percentuali invertite – 70% degli studenti in presenza e 30% a casa – grazie probabilmente al fatto che si tratti di una prima e che, essendo la scuola collocata in una piccola cittadina, non presenti i problemi legati ai trasporti delle aree metropolitane.

Molti genitori hanno infatti deciso di far rimanere a casa i propri figli per evitare che dovessero quotidianamente affrontare il rischio rappresentato da mezzi pubblici affollati o da ambienti scolastici sottodimensionati rispetto al numero di studenti. Alcune famiglie hanno situazioni di fragilità, altre manifestano una paura che prescinde dalle ripetute rassicurazioni sulla sicurezza degli ambienti scolastici – in tempi di pandemia inevitabilmente mai assoluta.

Ma ci sono anche altre motivazioni che spingono quell’80% a restare a casa, come emerge dai post sui social, dai racconti degli insegnanti e dalle interviste trasmesse in tv. Alcuni di loro, abbastanza fortunati da frequentare istituti con esperienze consolidate di didattica digitale, hanno sperimentato una DAD soddisfacente.

Molti trovano più comodo stare a casa, sono meno stressati o hanno voti più alti in DAD rispetto a quando erano in presenza. Io aggiungerei un’altra motivazione, che dovrebbe far riflettere chi si occupa di istruzione: sostanzialmente, danno scarso valore alla scuola come comunità di apprendimento, riducendo quest’ultimo alla dimensione del voto curricolare.

Non parliamo di DAD, parliamo di didattica efficace

Qualche tempo fa sui social un docente particolarmente smart mi raccontava di come riuscisse a compensare la mancanza di socialità in presenza attraverso l’uso di strumenti digitali innovativi.

Peccato che, anche qualora la maggior parte degli insegnanti usasse quel genere di ambiente digitale – cosa che ovviamente non è – continuo a pensare che la complessità emotiva non possa passare da uno schermo. Insomma, in attesa di una grande riforma della scuola e di supporto formativo agli insegnanti, dobbiamo prendere in considerazione la realtà e non il mondo ideale dei tecnoentusiasti.

Però è vero che esiste una DAD ben fatta e di solito è quanto di più lontano dalla semplice trasposizione a distanza di una lezione frontale in presenza. Ha ragione la docente Daniela Di Donato quando dice che forse più che parlare di DAD, DDI o didattica in presenza dovremmo piuttosto iniziare a parlare di didattica efficace, a prescindere dal metodo usato: “Invocare la didattica in presenza come panacea della scuola in questo momento è come voler curare il Covid con l’acqua invece che col vaccino. La distinzione da fare non è più tra didattica a distanza e in presenza, ma tra didattica efficace e dannosa”.

Occorre quindi interrogarsi e ripensare l’insegnamento, il modo di stare in classe e il ruolo del digitale una volta che la pandemia sarà passata, cercando di fare tesoro dalle nuove pratiche imposte dal virus.

Spesso dimentichiamo i diritti dei ragazzi

L’ultima cosa che ho capito della DAD e della scuola in tempi di Covid-19 è che tutti parlano di bambini e ragazzi, ma pochi sono realmente disposti ad ascoltarli, a comprendere le loro aspirazioni, le loro difficoltà e i loro bisogni profondi.

Il mondo degli adulti ha evocato la salute dei padri e dei nonni come diritto assoluto sul cui altare sacrificare tutti gli altri, inclusa la salute dei più giovani, che dà i primi drammatici segni di cedimento, con un aumento dei casi di tentato suicidio e autolesionismo.

La scuola pubblica è un argine che tutela e dà una chance a chi proviene da situazioni fragili o deprivate. Anche io come lo psicologo Matteo Lancini sogno una scuola aperta tutto il giorno, sia online che come spazio fisico di incontro.

 

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